00 14/04/2012 11:40
di Chiara Biraghi
"I'm a death man" (sono un uomo morto), questa è una delle frasi che, il mio amico di penna
detenuto nel braccio della morte del Texas, mi ha scritto nella sua prima lettera.
A me, nonostante sapessi che prima o poi, la condanna verrà eseguita, ha colpito molto. Non so il
reato di cui è accusato, non glielo chiederò mai, ma fa riflettere come "il braccio della morte"
spersonalizzi, non sei più un uomo, una persona ma, bensì, sei un uomo morto. Non conti più nulla,
sei rinchiuso, con tutti i diritti, sanciti anche dai trattati internazionali e dalla Carta dei diritti umani,
vengano calpestati.
Il comune sentire non è a favore della pena di morte ma, se quel detenuto ha commesso il reato
(voglio ricordare che c'è anche un percentuale di innocenti), e sapendo a cosa andava incontro, è
bene che lui resti lì. Niente sconti, niente diritto di replica. In buon sostanza, la filosofia di fondo è
"buttiamo via la chiave!".
E' innegabile che quella persona avrà, per la maggior parte dei casi, ucciso un uomo e quindi lo ha
privato della vita, il diritto assoluto ma, è anche vero che nessun sistema di giustizia deve arrogarsi
il diritto di uccidere consapevolmente un'altra persona.
Se errare è umano, chi garantisce alla collettività tutta che il giudizio del Giudice e della giuria sia
privo di errori e contraddizioni?
E' bene riflettere, quando si parla di "pena di morte" di "deterrenza" intesa come quel fattore che
deve incidere quando un soggetto, prossimo al compimento del reato, lo porti sulla retta via e non
gli permetta di cadere in errore. Altra riflessione è doverosa sul termine "errore" e sul concetto di
"libertà", ed infine sul concetto di "pena".
Cosa è giusto e cosa è sbagliato?
Chi ha il diritto di privare della vita?
Quanto conta il vissuto della persona nel corso della sua vita?
Una pena così definitiva può realmente essere utile? E questo "utile" cosa significa?
Sono tanti gli interrogativi aperti sulla questione (e tornerò sull'argomento), ed io, invito i miei
lettori a leggere "La mia vita nel braccio della morte" di M. Rossi (casa editrice Tea), per capirne
qualcosa in più sul sistema penitenziario (e non solo) americano.
Io proseguo nella mia corrispondenza con Steven (ecco il suo nome), cercando di essergli vicina e
creargli spazi di normalità, nella speranza che la sua morte non avvenga per mano di "assassini
legalizzati"
Chiara
www.pensierisocialidichiarabiraghi.blogspot.com